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 Gaius Valerius Catullus     
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Carmen 64
In   by  Mario Ramous.
Un tempo i pini cresciuti in vetta al Pelio solcarono,
si dice, le onde limpide di Nettuno
sino alla foce del Fasi, alle terre di Eète,
quando un pugno di giovani, i più forti degli Argivi,
decisi a sottrarre il vello d'oro ai Colchi,
affrontarono a forza il mare con la loro nave
battendo l'azzurra distesa coi remi d'abete.
La dea che abita sulle acropoli costru’
per loro una macchina che volava al primo vento,
fiss˜ ai fianchi dello scafo il fasciame di pino
e battezz˜ la prora affidandola ad Anfitrite.
Cos’ il giorno che il suo rostro solc˜ nel vento il mare
e sui remi le onde scintillarono di spuma,
dai gorghi abbaglianti sollevarono il volto fiero
le Nereidi marine stupite per il prodigio.
Quel giorno e mai più dopo le Ninfe del mare
apparvero agli occhi dei mortali
nude sino al petto fuori dai gorghi spumeggianti.
Fu allora che Peleo s'innamor˜ di Teti
e Teti accett˜ di sposare un uomo:
allora Giove permise a Peleo di unirsi a Teti.
O eroi nati in secoli avvolti di nostalgia,
salute a voi, stirpe di dei, frutto divino
del grembo materno, salute:
io nel mio canto voi invocher˜,
e più di tutti te, Peleo, nobilitato
dalle nozze, te, colonna di Tessaglia, a cui Giove,
il padre degli dei, don˜ la sua amata.
E tua fu Teti, la più bella figlia di Nereo:
Oceano, che cinge di mare la terra, e sua moglie
acconsentirono che tu sposassi la nipote.
Giunto infine il giorno tanto desiderato,
tutta la Tessaglia si riversa nella tua casa,
la reggia si riempie di una folla festosa,
tutti portano doni e in volto mostrano la gioia.
Lasciata Sciro, abbandonate Tempe in Tessaglia,
le case e le mura di Crannone e Larissa,
tutti corrono a Fársalo, una folla in ogni luogo.
Nessuno va più nei campi: gli animali impigriscono,
i denti dei rastrelli non rimondano le viti,
il toro non dissoda più col vomere la terra,
la falce non sfronda gli alberi attenuandone l'ombra:
in squallido abbandono arrugginiscono gli aratri.
Ma in ogni angolo la reggia dove lui viveva
risplende in uno sfolgorio di ori e argenti.
L'avorio bianco dei seggi, lo scintillio dei calici,
tutto il palazzo si accende del tesoro reale.
E nel cuore della casa è pronto il letto nuziale
della dea: inciso in avorio indiano, lo ricopre
una coltre tinta con la porpora rosa
delle conchiglie: le sue figure mostrano gesta
di eroi antichi con arte stupenda.
Ed ecco sulla riva di Dia fra scrosci di onde
Arianna vede fuggire Teseo all'orizzonte
sulla nave che veloce s'allontana e in cuore
presa dal delirio non vuol credere ai propri occhi,
ora che strappata alle illusioni del sonno
si ritrova abbandonata sulla spiaggia deserta.
Batte coi remi il mare, l'ha dimenticata, fugge,
lasciando che i venti disperdano le sue promesse.
E con sguardo disperato la figlia di Minosse
lo segue da lontano, tra le alghe, una baccante
di marmo, travolta da un'ondata d'angoscia;
lo segue, i biondi capelli scomposti, senza nastri,
il petto scoperto, senza che lo veli una veste,
senza un laccio che leghi il suo seno di latte:
scivolate dal corpo quelle vesti giacciono
sparse ai suoi piedi: un gioco per le onde del mare.
Ma lei non si cura di nastri o di veli che cadono:
a te con tutto il cuore, Teseo, con tutta l'anima,
a te con tutta la sua mente si avvinghia perduta.
Sventurata: con le sue continue torture,
seminandole il cuore di spine, Ericina
l'ha fatta impazzire il giorno che Teseo, lasciato
il golfo del Pireo, giunse arditamente
a Gortina nel palazzo di un re iniquo.
Costretta, sembra, da una spaventosa epidemia,
per espiare l'uccisione di Androgeo
la cittá di Cècrope immolava al Minotauro
i giovani migliori, il fiore delle vergini.
Di fronte al dolore che tormentava quelle mura
Teseo decise di sacrificare se stesso,
perchÈ cessassero dalla sua cara Atene a Creta
quei lugubri convogli di morti viventi:
sulle ali del vento con una nave da corsa
approd˜ alla reggia dell'implacabile Minosse.
Qui tra i profumi soavi del suo letto di vergine,
con un desiderio improvviso negli occhi lo guarda
la figlia del re, sbocciata in braccio a sua madre
come i mirti nutriti dalle acque dell'Eurota
o i colori vivaci che inventa la primavera;
e da lui non riesce a distogliere lo sguardo
in fiamme, tutto il suo corpo è un inferno
che arde fin dentro le ossa, in tutte le viscere.
Tu, cuore crudele, che procuri questi tormenti,
che mescoli gioie a dolori, divino fanciullo,
e tu, regina di Golgi, dei boschi sull'Idalio,
in che tempeste l'avete gettata: tutta un fuoco,
per il biondo straniero lei ora si strugge
e che vuoti di paura si porta in cuore.
Come impallid’ con i riflessi dell'oro in viso,
quando Teseo, rischiando la gloria o la morte,
si accinse a combattere contro quel mostro spietato.
Ma i suoi piccoli, inutili doni agli dei, i voti
sussurrati a fior di labbra non furono respinti.
Come tempesta selvaggia sulla cima del Tauro
piega una quercia che agita le braccia o un abete
che suda resina carico di pigne e ne scalza
di furia il tronco, che divelto dalle sue radici
cade riverso distruggendo tutto quanto incontra,
Teseo spezzandogli la schiena vinse quel mostro
che al vuoto scagliava cornate senza senso.
E di lá avvolto di gloria ritorna incolume
seguendo con un filo sottile i passi perduti,
perchÈ il groviglio inestricabile del labirinto
non gli impedisca d'uscire dal fondo del palazzo.
Ma basta divagare: devo dire altro:
fuggendo lo sguardo di suo padre, l'abbraccio
della sorella e della madre che l'amava
perdutamente, quella figliuola impazzita
a tutti preferisce il dolce amore di Teseo
e va per mare alla riva spumeggiante di Dia;
qui vinta dal sonno chiude gli occhi; l'amante,
che l'ha dimenticata, fugge, l'abbandona.
E lei sconvolta dal fuoco che ha in cuore
con tutta la voce grida la sua disperazione,
cupa si arrampica sulle scogliere a picco
per spingere lo sguardo oltre la distesa infinita
del mare o corre incontro alle sue onde inquiete
alzando la veste leggera sulle gambe ignude
e nello sgomento del suo dolore si lamenta,
singhiozza, un gelo dentro, il viso bagnato di lacrime.
'Tu, tu perfido, tu Teseo, dal mio focolare
m'hai strappato per lasciarmi su una spiaggia deserta'
Fuggi; non pensi, hai dimenticato i giuramenti,
le leggi divine, la maledizione che porti?
Niente dunque ha potuto distoglierti da un proposito
cos’ crudele? Nessuna dolcezza che insinuasse
nella ferocia del tuo cuore un poco di pietá?
Un tempo la tua voce suadente mi accarezzava
di speranze, non mi prometteva l'inferno,
ma la gioia delle nozze, l'amore che sognavo:
ora tutto è svanito, lo disperde il vento.
No, nessuna donna creda ai giuramenti di un uomo,
nessuna s'illuda che sia sincero quando parla:
se in cuore li rode il desiderio di possedere,
non temono giuramenti, promettono, promettono,
e sfogata la furia della loro voglia,
impassibili scordano promesse e giuramenti.
Ma io ti salvai mentre ti dibattevi nel vortice
della morte, lasciando che morisse mio fratello
piuttosto che abbandonarti a te stesso, traditore.
In cambio sar˜ gettata da sbranare a rapaci
e belve, e non avr˜ un pugno di terra sulla tomba.
Chi, forse una leonessa su una rupe deserta,
chi t'ha generato? il rigurgito bianco del mare?
le Sirti, la furia di Scilla, il gorgo di Cariddi?
è questo il premio per la vita che t'ho regalato?
Se in cuor tuo non pensavi di farmi tua sposa
perchÈ temevi il severo giudizio di tuo padre,
avresti potuto almeno condurmi a casa tua
come schiava: ti avrei servito con gioia, in ginocchio,
accarezzando con acqua fresca i tuoi piedi candidi
o stendendo sul tuo letto una coperta di porpora.
Ma perchÈ, perchÈ pazza di dolore, mi lamento
col vento che non sa nulla? non ha sensi, non pu˜
udire le parole che grido, non pu˜ rispondermi.
Ormai lui ha quasi raggiunto il mare aperto
e qui fra queste alghe non vedo nessuno.
Con scherno feroce la sorte mi nega in quest'ora
disperata anche chi possa ascoltare i miei lamenti.
Non fosse mai venuto il giorno, Giove onnipotente,
in cui le navi di Atene approdarono a Cnosso:
quel marinaio infido non sarebbe sceso a Creta
portando al Minotauro il suo maledetto tributo,
e non l'avremmo ospitato se in un viso gentile
non avesse nascosto l'infamia dei suoi propositi.
Che fare? non ho speranza, nulla, sono perduta.
Tornare ai monti di Creta dai quali mi divide
coi suoi gorghi la distesa minacciosa del mare?
E sperare in mio padre? l'ho lasciato per seguire
un giovane coperto del sangue di mio fratello.
Consolarmi nell'amore fedele dello sposo?
è in fuga: i remi si curvano docili nell'acqua.
E questa è un'isola deserta, senza un rifugio,
circondata dal mare, non ha vie d'uscita:
nessuna speranza di fuggire: tutto è silenzio,
solitudine, tutto mi parla di morte.
Ma prima che nella morte si spengano i miei occhi
e la vita abbandoni il mio corpo stremato,
io chiedo agli dei vendetta per questo tradimento
e imploro nell'ora estrema la loro protezione.
Voi, voi che colpite di vendetta i crimini umani,
voi, Eumènidi, che avete serpenti per capelli
a mostrare l'ira che prorompe dal petto,
venite, venite qui, ascoltate i lamenti
che l'infelicitá mi strappa dalle viscere:
impotente, il cuore in fiamme, cieca di rabbia.
è un grido che mi nasce dentro, vero, giusto:
non lasciate che il mio dolore resti invendicato:
col cuore che gli consent’ d'abbandonarmi, o dee,
Teseo precipiti se stesso e i suoi nel lutto.'
Quando il grido della sua disperazione si spense
con la supplica di punire quel crimine odioso,
il re dei celesti annu’ con gesto irrevocabile
e a questo trem˜ la terra, tremarono le onde
increspate del mare e in cielo le stelle lucenti.
La mente di Teseo fu annebbiata dalle tenebre
e tutti gli ordini che egli custodiva con cura
dentro di sÈ, gli caddero dal cuore smemorato:
cos’ dimentica di segnalare al padre in ansia
che tornava incolume al porto di Eretteo.
A suo tempo Egeo, affidando ai venti il figlio
che lasciava con le sue navi le mura di Atene,
gli aveva dato abbracciandolo questi ordini:
'Figliolo, unica gioia di tutta la mia vita,
ora che alla fine dei miei giorni io t'ho riavuto,
figlio mio, ti devo abbandonare a questo rischio:
la mia sventura e il tuo coraggio ti strappano a me
senza rimedio e i miei occhi indeboliti
non potranno saziarsi del tuo volto amato;
no, non ti lascer˜ partire con animo lieto,
non permetter˜ che tu innalzi insegne di gioia;
devo prima sfogare il cuore di tutto il suo pianto,
sporcare di terra e polvere i miei capelli bianchi;
poi alzer˜ sul tuo albero vele nere al vento,
perchÈ il loro colore lugubre come la ruggine
ricordi il mio dolore, il fuoco che mi brucia.
Ma se la dea, che abita la sacra Itono e giura
di difendere il popolo e la cittá di Eretteo,
ti lascerá affondare il polso nel sangue del toro,
cerca che questi ordini, nascosti in fondo al cuore,
rimangano vivi e che mai il tempo li cancelli:
appena scorgerai lontano i nostri colli
ammaina dagli alberi le insegne di lutto
e con solide funi alza vele candide,
perchÈ vedendole a festa io riconosca subito
i segnali che annunciano il tuo felice ritorno'.
Ma questi ordini che custodiva a forza in cuore
fuggirono da Teseo come nubi disperse
dal vento sulla cima di un monte bianco di neve.
E il padre che scrutava l'orizzonte dall'acropoli
struggendo gli occhi angosciati in continuo pianto,
all'apparire delle vele gonfiate dal vento,
certo che il destino gli avesse tolto il figlio,
si gett˜ impazzito dall'alto della rupe.
Cos’ dentro la sua casa in lutto per questa morte
il crudele Teseo prov˜ su di sÈ il dolore
che aveva inflitto ad Arianna dimenticandola.
E lei guarda tristemente la nave allontanarsi
trafitta in cuore dai mille affanni che la tormentano.
Ma dall'altro lato scende a volo il giovane Iacco
con il suo seguito di Satiri e Sileni,
cercando te, acceso d'amore per te, Arianna.
E con lui, in preda a pazzia, eccitate si agitano,
dimenando la testa al grido evoè, le Baccanti.
Alcune scuotono i pampini in cima ai tirsi,
altre spargono le membra di un vitello squartato,
si cingono la fronte di serpenti attorcigliati
o celebrano con riti oscuri quel culto
misterioso che i profani vorrebbero conoscere.
Battono a mani aperte i loro timpani,
traggono squilli acuti dal bronzo dei cembali
o soffiano dai corni boati profondi,
mentre il flauto barbaro stride rumori terribili.
Con queste splendide immagini era decorata
la coltre che copriva a drappeggio il letto nuziale.
Quando la gioventù di Tessaglia si fu stancata
di ammirarla, cedette il posto agli ospiti divini.
Come zefiro, mentre alle porte del sole a volo
sorge l'aurora, increspa con la brezza del mattino
il mare tranquillo e alza una ad una le onde,
che prima sospinte da un soffio leggero si muovono
pigre e risuonano appena con sussurri di risa,
poi col crescere del vento via via s'infittiscono
e lontano si accendono di riflessi vermigli,
cos’ lasciando il palazzo reale, in fretta
ciascuno per vie diverse ritorna a casa.
Dopo la loro partenza, dalla cima del Pelio
prima arriva Chirone coi doni della foresta:
sono fiori di campo, tutti quelli che in Tessaglia
nascono sui monti, i fiori che il tepore fecondo
del favonio fa sbocciare sulla riva dei fiumi:
li porta intrecciati in ghirlande alla rinfusa
e alla carezza di quei profumi ride la casa.
Poi dalla verde valle di Tempe, da quella valle
tutta circondata a monte di foreste e lasciata
alle danze sacre delle ninfe, viene Peneo
a mani colme: porta strappati dalle radici
faggi altissimi e lauri dal tronco dritto e slanciato,
un platano che vibra, l'agile pianta sorella
di Fetonte arso vivo, e un alto cipresso.
Tutto intorno alla reggia intreccia i loro rami
perchÈ il verde delle foghe veli l'atrio di fresco.
Lo segue Prometeo, quell'ingegno sottile,
con ancora qualche segno del castigo sub’to
quando un tempo lontano fu stretto in catene
ad una roccia sospesa sull'orlo di un abisso.
Poi il padre degli dei con la sua sposa divina
e tutti i figli: lascia nel cielo te solo, Febo,
e tua sorella che abita sui monti dell'Idro:
lei, che come te disprezza Peleo,
non pu˜ onorare le fiaccole nuziali di Teti.
Assisi gli dei in seggi bianchi come la neve
e imbandite le mense con ogni sorta di cibi,
le Parche, scosse in corpo da un brivido incerto,
intonarono il canto delle loro profezie.
Una veste candida orlata di porpora ai piedi
avvolgeva come un manto il loro corpo tremante,
bende rosa incoronavano le tempie di neve,
le mani ripetevano il loro eterno lavoro.
La sinistra stringeva la rocca avvolta di lana,
la destra, tirando piano i fili, li lavorava
fra le dita torcendoli col pollice abbassato
e girava il fuso equilibrato dalla sua ruota;
coi denti toglievano ogni imperfezione al lavoro
e i bioccoli strappati alla superficie dei fili
pendevano dalle sottili labbra rinsecchite;
ai loro piedi cesti di vimini raccoglievano
in matasse morbide il candido filato.
E filando le loro matasse, con voce chiara
rivelavano in un canto profetico destini
che nessun futuro potrá accusare di menzogna.
'O tu che esalti di virtù la nobiltá del nome,
baluardo di Tessaglia, tu carissimo a Giove,
ascolta le profezie che in questa festa ti svelano
le tre sorelle. E voi, che ordite di trame il destino,
girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Ora Espero verrá a portarti ci˜ che desiderano
i mariti e con la dolce stella verrá la sposa
a colmare d'amore il tuo cuore indifeso,
a confondere il tuo sonno col suo languore
stringendoti intorno al collo le sue braccia sottili.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Nessuna casa mai vide un amore come questo,
nessun amore un’ due amanti con la passione
di questo che lega l'uno all'altra Peleo e Teti.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Da voi nascerá Achille, incapace di paura,
di lui il nemico vedrá solo il petto, mai la schiena;
cos’ veloce nella corsa da vincere sempre
e precedere il lampo di una cerva in fuga.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Nessun guerriero si potrá misurare con lui
quando la Frigia sará un lago di sangue troiano
e il terzo erede di Pèlope lo spergiuro
devasterá, dopo l'assedio, le mura di Troia.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Quante madri dovranno sulla tomba dei figlioli
riconoscergli gesta e valore incredibili,
strappandosi dal capo i grigi capelli scomposti,
graffiandosi il petto avvizzito con mani tremanti.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Come un mietitore falciando la messe di spighe
spoglia i campi ingialliti sotto la sferza del sole
lui abbatterá i Troiani col suo ferro implacabile.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Testimone delle sue gesta sará lo Scamandro
che da più bocche si getta nei flutti d'Ellesponto:
Achille coprirá il suo letto di cadaveri
riscaldando col sangue le acque profonde.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
E lo attesterá la vittima offerta alla sua morte,
quando in cima al suo tumulo, una montagna di terra,
cadrá il pallido corpo della vergine immolata.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Appena il destino avrá concesso agli stanchi Achei
di abbattere le mura di Nettuno intorno a Troia,
il grande tumulo berrá il sangue di Polissena,
che vittima stroncata da un colpo di scure
s'affloscerá sulle ginocchia, un tronco senza vita.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Ma ora stringete il vostro desiderio d'amore:
accolga lo sposo con patto fecondo la dea,
si dia la sposa al marito impaziente.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.
Rivedendola il mattino dopo la sua nutrice
non potrá più cingerle il collo col filo di ieri
(girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate),
e la madre, preoccupata che la sua figliola
dormisse sola, potrá sperare in cari nipoti.
Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.'
Questo l'augurio di felicitá che rivelarono,
cantando con voce divina, le Parche a Peleo.
Un tempo, quando non si spregiava la fede,
i celesti visitavano le case onorate
degli eroi, si mostravano ai convegni degli uomini.
E nei giorni sacri delle feste annuali
più volte il padre degli dei, tornando nel suo tempio
splendente di luce, vide un'ecatombe di tori.
Cos’ Libero, errando sulla cima del Parnaso,
guid˜ le T’adi che urlano a capelli sciolti
e la gente di Delfi accorrendo dalla cittá
l'accolse felice tra il fumo degli altari.
Un tempo nei rischi mortali della guerra Marte,
la signora del violento Tritone e Nemesi
incitarono con la loro presenza gli eserciti.
Ma poi la terra si macchi˜ di crimini incredibili,
le passioni bandirono dal cuore la giustizia
e di sangue fraterno si bagnarono i fratelli,
i figli non piansero più i loro genitori.
il padre si augur˜ la morte del suo primogenito
per cogliere in pace il fiore di una matrigna vergine,
la madre piegandosi alle voglie inconsce del figlio
non si cur˜ di profanare il ricordo dei morti:
e mescolare il bene al male con furore infame
ci alien˜ la misericordia degli dei.
Cos’ più non si avventurano in mezzo a noi,
non sopportano che la luce del giorno li sfiori.
In   by  Catullus.
Peliaco quondam prognatae vertice pinus
dicuntur liquidas Neptuni nasse per undas
Phasidos ad fluctus et fines Aeetaeos,
cum lecti iuvenes, Argivae robora pubis,
auratam optantes Colchis avertere pellem
ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi,
caerula verrentes abiegnis aequora palmis.
diva quibus retinens in summis urbibus arces
ipsa levi fecit volitantem flamine currum,
pinea coniungens inflexae texta carinae.
illa rudem cursu prima imbuit Amphitriten;
quae simul ac rostro ventosum proscidit aequor
tortaque remigio spumis incanuit unda,
emersere freti candenti e gurgite vultus
aequoreae monstrum Nereides admirantes.
illa, atque alia, viderunt luce marinas
mortales oculis nudato corpore Nymphas
nutricum tenus exstantes e gurgite cano.
tum Thetidis Peleus incensus fertur amore,
tum Thetis humanos non despexit hymenaeos,
tum Thetidi pater ipse iugandum Pelea sensit.
o nimis optato saeclorum tempore nati
heroes, salvete, deum genus! o bona matrum
progenies, salvete iter...
vos ego saepe, meo vos carmine compellabo.
teque adeo eximie taedis felicibus aucte,
Thessaliae columen Peleu, cui Iuppiter ipse,
ipse suos divum genitor concessit amores;
tene Thetis tenuit pulcerrima Nereine?
tene suam Tethys concessit ducere neptem,
Oceanusque, mari totum qui amplectitur orbem?
quae simul optatae finito tempore luces
aduenere, domum conventu tota frequentat
Thessalia, oppletur laetanti regia coetu:
dona ferunt prae se, declarant gaudia vultu.
deseritur Cieros, linquunt Pthiotica Tempe
Crannonisque domos ac moenia Larisaea,
Pharsalum coeunt, Pharsalia tecta frequentant.
rura colit nemo, mollescunt colla iuvencis,
non humilis curuis purgatur vinea rastris,
non glebam prono conuellit vomere taurus,
non falx attenuat frondatorum arboris umbram,
squalida desertis rubigo infertur aratris.
ipsius at sedes, quacumque opulenta recessit
regia, fulgenti splendent auro atque argento.
candet ebur soliis, collucent pocula mensae,
tota domus gaudet regali splendida gaza.
puluinar vero divae geniale locatur
sedibus in mediis, Indo quod dente politum
tincta tegit roseo conchyli purpura fuco.
haec vestis priscis hominum uariata figuris
heroum mira virtutes indicat arte.
namque fluentisono prospectans litore Diae,
Thesea cedentem celeri cum classe tuetur
indomitos in corde gerens Ariadna furores,
necdum etiam sese quae visit visere credit,
utpote fallaci quae tum primum excita somno
desertam in sola miseram se cernat harena.
immemor at iuvenis fugiens pellit uada remis,
irrita ventosae linquens promissa procellae.
quem procul ex alga maestis Minois ocellis,
saxea ut effigies bacchantis, prospicit, eheu,
prospicit et magnis curarum fluctuat undis,
non flavo retinens subtilem vertice mitram,
non contecta levi uelatum pectus amictu,
non tereti strophio lactentis vincta papillas,
omnia quae toto delapsa e corpore passim
ipsius ante pedes fluctus salis alludebant.
sed neque tum mitrae neque tum fluitantis amictus
illa vicem curans toto ex te pectore, Theseu,
toto animo, tota pendebat perdita mente.
misera, assiduis quam luctibus externauit
spinosas Erycina serens in pectore curas,
illa tempestate, ferox quo ex tempore Theseus
egressus curuis e litoribus Piraei
attigit iniusti regis Gortynia templa.
nam perhibent olim crudeli peste coactam
Androgeoneae poenas exsoluere caedis
electos ivuenes simul et decus innuptarum
Cecropiam solitam esse dapem dare Minotauro.
quis angusta malis cum moenia uexarentur,
ipse suum Theseus pro caris corpus Athenis
proicere optauit potius quam talia Cretam
funera Cecropiae nec funera portarentur.
atque ita nave leui nitens ac lenibus auris
magnanimum ad Minoa venit sedesque superbas.
hunc simul ac cupido conspexit lumine uirgo
regia, quam suauis exspirans castus odores
lectulus in molli complexu matris alebat,
quales Eurotae praecingunt flumina myrtus
aurave distinctos educit verna colores,
non prius ex illo flagrantia declinauit
lumina, quam cuncto concepit corpore flammam
funditus atque imis exarsit tota medullis.
heu misere exagitans immiti corde furores
sancte puer, curis hominum qui gaudia misces,
quaeque regis Golgos quaeque Idalium frondosum,
qualibus incensam iactastis mente puellam
fluctibus, in flavo saepe hospite suspirantem!
quantos illa tulit languenti corde timores!
quanto saepe magis fulgore expalluit auri,
cum saevum cupiens contra contendere monstrum
aut mortem appeteret Theseus aut praemia laudis!
non ingrata tamen frustra munuscula divis
promittens tacito succepit vota labello.
nam velut in summo quatientem brachia Tauro
quercum aut conigeram sudanti cortice pinum
indomitus turbo contorquens flamine robur,
eruit (illa procul radicitus exturbata
prona cadit, late quaevis cumque obuia frangens,)
sic domito saeuum prostravit corpore Theseus
nequiquam vanis iactantem cornua ventis.
inde pedem sospes multa cum laude reflexit
errabunda regens tenui vestigia filo,
ne labyrintheis e flexibus egredientem
tecti frustraretur inobseruabilis error.
sed quid ego a primo digressus carmine plura
commemorem, ut linquens genitoris filia vultum,
ut consanguineae complexum, ut denique matris,
quae misera in gnata deperdita laeta
omnibus his Thesei dulcem praeoptarit amorem:
venerit aut ut vecta rati spumosa ad litora Diae
aut ut eam devinctam lumina somno
liquerit immemori discedens pectore coniunx?
saepe illam perhibent ardenti corde furentem
clarisonas imo fudisse e pectore voces,
ac tum praeruptos tristem conscendere montes,
unde aciem pelagi vastos protenderet aestus,
tum tremuli salis aduersas procurrere in undas
mollia nudatae tollentem tegmina surae,
atque haec extremis maestam dixisse querellis,
frigidulos udo singultus ore cientem:
'sicine me patriis auectam, perfide, ab aris
perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?
sicine discedens neglecto numine divum,
immemor a! devota domum periuria portas?
nullane res potuit crudelis flectere mentis
consilium? tibi nulla fuit clementia praesto,
immite ut nostri vellet miserescere pectus?
at non haec quondam blanda promissa dedisti
voce mihi, non haec miserae sperare iubebas,
sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos,
quae cuncta aereii discerpunt irrita uenti.
nunc iam nulla uiro iuranti femina credat,
nulla uiri speret sermones esse fideles;
quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,
nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt:
sed simul ac cupidae mentis satiata libido est,
dicta nihil metuere, nihil periuria curant.
certe ego te in medio versantem turbine leti
eripui, et potius germanum amittere creui,
quam tibi fallaci supremo in tempore dessem.
pro quo dilaceranda feris dabor alitibusque
praeda, neque iniacta tumulabor mortua terra.
quaenam te genuit sola sub rupe leaena,
quod mare conceptum spumantibus exspuit undis,
quae Syrtis, quae Scylla rapax, quae vasta Carybdis,
talia qui reddis pro dulci praemia uita?
si tibi non cordi fuerant conubia nostra,
saeua quod horrebas prisci praecepta parentis,
attamen in uestras potuisti ducere sedes,
quae tibi iucundo famularer serua labore,
candida permulcens liquidis vestigia lymphis,
purpureaue tuum consternens veste cubile.
sed quid ego ignaris nequiquam conquerar auris,
externata malo, quae nullis sensibus auctae
nec missas audire queunt nec reddere voces?
ille autem prope iam mediis versatur in undis,
nec quisquam apparet vacua mortalis in alga.
sic nimis insultans extremo tempore saeva
fors etiam nostris inuidit questibus auris.
Iuppiter omnipotens, utinam ne tempore primo
Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes,
indomito nec dira ferens stipendia tauro
perfidus in Cretam religasset navita funem,
nec malus hic celans dulci crudelia forma
consilia in nostris requiesset sedibus hospes!
nam quo me referam? quali spe perdita nitor?
Idaeosne petam montes? at gurgite lato
discernens ponti truculentum dividit aequor.
an patris auxilium sperem? quemne ipsa reliqui
respersum iuvenem fraterna caede secuta?
coniugis an fido consoler memet amore?
quine fugit lentos incurvans gurgite remos?
praeterea nullo colitur sola insula tecto,
nec patet egressus pelagi cingentibus undis.
nulla fugae ratio, nulla spes: omnia muta,
omnia sunt deserta, ostentant omnia letum.
non tamen ante mihi languescent lumina morte,
nec prius a fesso secedent corpore sensus,
quam iustam a diuis exposcam prodita multam
caelestumque fidem postrema comprecer hora.
quare facta uirum multantes vindice poena
Eumenides, quibus anguino redimita capillo
frons exspirantis praeportat pectoris iras,
huc huc adventate, meas audite querellas,
quas ego, vae misera, extremis proferre medullis
cogor inops, ardens, amenti caeca furore.
quae quoniam verae nascuntur pectore ab imo,
vos nolite pati nostrum vanescere luctum,
sed quali solam Theseus me mente reliquit,
tali mente, deae, funestet seque suosque.'
has postquam maesto profudit pectore uoces,
supplicium saevis exposcens anxia factis,
annuit inuicto caelestum numine rector;
quo motu tellus atque horrida contremuerunt
aequora concussitque micantia sidera mundus.
ipse autem caeca mentem caligine Theseus
consitus oblito dimisit pectore cuncta,
quae mandata prius constanti mente tenebat,
dulcia nec maesto sustollens signa parenti
sospitem Erechtheum se ostendit visere portum.
namque ferunt olim, classi cum moenia divae
linquentem gnatum ventis concrederet Aegeus,
talia complexum iuveni mandata dedisse:
'gnate mihi longa iucundior unice vita,
gnate, ego quem in dubios cogor dimittere casus,
reddite in extrema nuper mihi fine senectae,
quandoquidem fortuna mea ac tua fervida virtus
eripit inuito mihi te, cui languida nondum
lumina sunt gnati cara saturata figura,
non ego te gaudens laetanti pectore mittam,
nec te ferre sinam fortunae signa secundae,
sed primum multas expromam mente querellas,
canitiem terra atque infuso pulvere foedans,
inde infecta uago suspendam lintea malo,
nostros ut luctus nostraeque incendia mentis
carbasus obscurata dicet ferrugine Hibera.
quod tibi si sancti concesserit incola Itoni,
quae nostrum genus ac sedes defendere Erecthei
annuit, ut tauri respergas sanguine dextram,
tum vero facito ut memori tibi condita corde
haec uigeant mandata, nec ulla oblitteret aetas;
ut simul ac nostros invisent lumina collis,
funestam antennae deponant undique vestem,
candidaque intorti sustollant vela rudentes,
quam primum cernens ut laeta gaudia mente
agnoscam, cum te reducem aetas prospera sistet.'
haec mandata prius constanti mente tenentem
Thesea ceu pulsae ventorum flamine nubes
aereum nivei montis liquere cacumen.
at pater, ut summa prospectum ex arce petebat,
anxia in assiduos absumens lumina fletus,
cum primum infecti conspexit lintea ueli,
praecipitem sese scopulorum e vertice iecit,
amissum credens immiti Thesea fato.
sic funesta domus ingressus tecta paterna
morte ferox Theseus, qualem Minoidi luctum
obtulerat mente immemori, talem ipse recepit.
quae tum prospectans cedentem maesta carinam
multiplices animo voluebat saucia curas.
at parte ex alia florens volitabat Iacchus
cum thiaso Satyrorum et Nysigenis Silenis,
te quaerens, Ariadna, tuoque incensus amore.
. . . . . . . . . . .
quae tum alacres passim lymphata mente furebant
euhoe bacchantes, euhoe capita inflectentes.
harum pars tecta quatiebant cuspide thyrsos,
pars e divolso iactabant membra iuvenco,
pars sese tortis serpentibus incingebant,
pars obscura cavis celebrabant orgia cistis,
orgia quae frustra cupiunt audire profani;
plangebant aliae proceris tympana palmis,
aut tereti tenvis tinnitus aere ciebant;
multis raucisonos efflabant cornua bombos
barbaraque horribili stridebat tibia cantu.
talibus amplifice vestis decorata figuris
puluinar complexa suo velabat amictu.
quae postquam cupide spectando Thessala pubes
expleta est, sanctis coepit decedere divis.
hic, qualis flatu placidum mare matutino
horrificans Zephyrus proclivas incitat undas,
Aurora exoriente vagi sub limina Solis,
quae tarde primum clementi flamine pulsae
procedunt leviterque sonant plangore cachinni,
post vento crescente magis magis increbescunt,
purpureaque procul nantes ab luce refulgent:
sic tum vestibuli linquentes regia tecta
ad se quisque vago passim pede discedebant.
quorum post abitum princeps e vertice Pelei
advenit Chiron portans siluestria dona:
nam quoscumque ferunt campi, quos Thessala magnis
montibus ora creat, quos propter fluminis undas
aura parit flores tepidi fecunda Favoni,
hos indistinctis plexos tulit ipse corollis,
quo permulsa domus iucundo risit odore.
confestim Penios adest, viridantia Tempe,
Tempe, quae silvae cingunt super impendentes,
Minosim linquens doris celebranda choreis,
non vacuos: namque ille tulit radicitus altas
fagos ac recto proceras stipite laurus,
non sine nutanti platano lentaque sorore
flammati Phaethontis et aerea cupressu.
haec circum sedes late contexta locauit,
vestibulum ut molli velatum fronde vireret.
post hunc consequitur sollerti corde Prometheus,
extenuata gerens veteris vestigia poenae,
quam quondam silici restrictus membra catena
persoluit pendens e verticibus praeruptis.
inde pater diuum sancta cum coniuge natisque
advenit caelo, te solum, Phoebe, relinquens
unigenamque simul cultricem montibus Idri:
Pelea nam tecum pariter soror aspernata est,
nec Thetidis taedas voluit celebrare iugales.
qui postquam niveis flexerunt sedibus artus
large multiplici constructae sunt dape mensae,
cum interea infirmo quatientes corpora motu
veridicos Parcae coeperunt edere cantus.
his corpus tremulum complectens undique vestis
candida purpurea talos incinxerat ora,
at roseae niveo residebant vertice vittae,
aeternumque manus carpebant rite laborem.
laeua colum molli lana retinebat amictum,
dextera tum leviter deducens fila supinis
formabat digitis, tum prono in pollice torquens
libratum tereti versabat turbine fusum,
atque ita decerpens aequabat semper opus dens,
laneaque aridulis haerebant morsa labellis,
quae prius in leui fuerant exstantia filo:
ante pedes autem candentis mollia lanae
vellera uirgati custodibant calathisci.
haec tum clarisona pellentes vellera voce
talia divino fuderunt carmine fata,
carmine, perfidiae quod post nulla arguet aetas.
o decus eximium magnis virtutibus augens,
Emathiae tutamen, Opis carissime nato,
accipe, quod laeta tibi pandunt luce sorores,
veridicum oraclum: sed uos, quae fata sequuntur,
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
adveniet tibi iam portans optata maritis
Hesperus, adveniet fausto cum sidere coniunx,
quae tibi flexanimo mentem perfundat amore,
languidulosque paret tecum coniungere somnos,
leuia substernens robusto bracchia collo.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
nulla domus tales umquam contexit amores,
nullus amor tali coniunxit foedere amantes,
qualis adest Thetidi, qualis concordia Peleo.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
nascetur vobis expers terroris Achilles,
hostibus haud tergo, sed forti pectore notus,
qui persaepe vago victor certamine cursus
flammea praeuertet celeris vestigia ceruae.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
non illi quisquam bello se conferet heros,
cum Phrygii Teucro manabunt sanguine
Troicaque obsidens longinquo moenia bello,
periuri Pelopis vastabit tertius heres.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
illius egregias virtutes claraque facta
saepe fatebuntur gnatorum in funere matres,
cum incultum cano solvent a uertice crinem,
putridaque infirmis variabunt pectora palmis.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
namque velut densas praecerpens messor aristas
sole sub ardenti flauentia demetit arua,
Troiugenum infesto prosternet corpora ferro.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
testis erit magnis virtutibus unda Scamandri,
quae passim rapido diffunditur Hellesponto,
cuius iter caesis angustans corporum aceruis
alta tepefaciet permixta flumina caede.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
denique testis erit morti quoque reddita praeda,
cum teres excelso coaceruatum aggere bustum
excipiet niveos perculsae virginis artus.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
nam simul ac fessis dederit fors copiam Achiuis
urbis Dardaniae Neptunia solvere uincla,
alta Polyxenia madefient caede sepulcra;
quae, velut ancipiti succumbens victima ferro,
proiciet truncum summisso poplite corpus.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
quare agite optatos animi coniungite amores.
accipiat coniunx felici foedere diuam,
dedatur cupido iam dudum nupta marito.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
non illam nutrix orienti luce revisens
hesterno collum poterit circumdare filo,
anxia nec mater discordis maesta puellae
secubitu caros mittet sperare nepotes.
currite ducentes subtegmina, currite, fusi.
talia praefantes quondam felicia Pelei
carmina divino cecinerunt pectore Parcae.
praesentes namque ante domos invisere castas
heroum, et sese mortali ostendere coetu,
caelicolae nondum spreta pietate solebant.
saepe pater divum templo in fulgente reuisens,
annua cum festis venissent sacra diebus,
conspexit terra centum procumbere tauros.
saepe uagus Liber Parnasi vertice summo
Thyiadas effusis evantis crinibus egit,
cum Delphi tota certatim ex urbe ruentes
acciperent laeti divum fumantibus aris.
saepe in letifero belli certamine Mauors
aut rapidi Tritonis era aut Amarunsia virgo
armatas hominum est praesens hortata cateruas.
sed postquam tellus scelere est imbuta nefando
iustitiamque omnes cupida de mente fugarunt,
perfudere manus fraterno sanguine fratres,
destitit extinctos gnatus lugere parentes,
optauit genitor primaeui funera nati,
liber ut innuptae poteretur flore novercae,
ignaro mater substernens se impia nato
impia non verita est diuos scelerare penates.
omnia fanda nefanda malo permixta furore
iustificam nobis mentem avertere deorum.
quare nec talis dignantur visere coetus,
nec se contingi patiuntur lumine claro.
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